Un giorno in autunno, quando il tempo era ancora molto caldo e per andare a scuola si toccavano i gelidi fondali dei pozzi di voglia, i ragazzi cercavano qualunque pretesto per rimanere a casa e dedicarsi al dolce far nulla. Quel giorno pioveva.

Le capre erano d’accordo con i ragazzi e si divertivano di sparpagliare il fieno nella stalla, fra le piccole e grandi lotte che devono sostenere ogni giorno per giustificare il posto migliore, che si trova sempre dalla parte opposta. La cavalla, residuo di un incidente del suo amato maschio finito strangolato dalla fune, fissata troppo vicino a una terrazza da dove aveva preso il volo, cercava attraverso la rete del recinto nelle mie tasche qualcosa di buono, mentre stavo per riempire i secchi di acqua, sia per lei che per le capre, galline, conigli e tacchini. Mentre svolgevo queste mansioni, la pioggia torrenziale evaporava sulla pelle mia.

Dopo aver portato il secchio alle capre, prontamente rovesciato, alla cavalla che beveva con sorsi lunghi, e alle galline, che nell’ordine di rango si inzuppavano il becco, i ragazzi si sono messo a litigare per chi doveva preparare la colazione. Quando sono poi salito, i letti erano ancora disfatti, della colazione nessun segnale.

Infatti, pioveva fortissimo. Questa pioggià deve essere tipica di questo continente. Mi ricordo che la trovavo antipatica quanto questi ragazzi e se potevo dipingere il bagnato, lo facevo. Era una cosa con cui dimostravo al mondo quanto poco mi importava del mio essere.

Mi sono preso un pezzo di pane, il lato migliore, un vasetto di verdura sott’aceto, un po’ di sale e olio, e un piatto. Solo solo ho cominciato a mangiare, quando sento tre paia di occhi che mi fissano. Sempre da lontano e quando alzavo la testa, loro che le giravano a contare le pietruzze della ghiaia in terra, o a ammirare gli ettari di blu nel cielo. La fame è una brutta bestia, ma pioveva, e non ci poteva fare nulla. Mi è molto dispiaciuto e mi è quasi venuto da piangere.

A un certo tratto qualcuno mi imitava e si mettevano con me al tavolo, chiedendosi, ma che cazzo succede, perché non dice nulla? Dovete sapere che loro sono i figli di un mio vecchio amico, sempre molto attento alle cose che facevano gli altri e molto poco attento alle cose che invece faceva lui. Dalla mattina alla sera non aveva altro a che fare che criticare tutti del loro operato e di incazzarsi per ogni bazzecola. Un vero patrone. Non nel senso tedesco, dove le patrone si usano per sparare agli uccellini e qualche volta al cane del vicino per fargli un dispetto. E per dire, guarda, oggi è stato il tuo cane, domani forse tu. Con un sorriso innocente. Oh, quanto amo la campagna!

Quel giorno mi ricordo di essermi steso in amaca sotto gli alberi a leggere un libro e dormire. I ragazzi, non so, si sono annoiati, e alla fine si sono messi a litigare, come lo fanno i bambini.

Quel giorno, non c’è stata nessuna frana. Se non quella della bocca della ragazza più grande, che alla fine della giornata mi chiese dove era la cena. “Piove, cara, e non sono riuscito a accendere il fuoco oggi. Magari, domani è un giorno più bello e mi riesce meglio.”

La mattina successiva, le stesse gocce di acqua, lo stesso grigio, la stessa polvere sulla via, ma la scuola non era troppo lontana. E all’una, quando tornavano, avevamo tutti un felice sorriso stampato sulla faccia, contenti di aver fatto i nostri compiti di casa e di classe, e di volerci ancora una volta molto bene.